due chiacchiere

La Quarta Bozza del Maestro Alberto

E così la prima stagione delle interviste doppie giunge quasi al termine. Ancora un paio di puntate e poi tutti al mare fino a Settembre, quando spero di aver racimolato un nuovo spumeggiante cast per la nuova edizione della mia rubrica. Visto che intanto le scuole sono oramai chiuse, e solo gli ultimi maturandi si attardano a farsi interrogare per conseguire l’agognato titolo, ho pensato bene di intervistare una traduttrice ed un maestro, e chiedergli cosa ne pensano della scuola attuale. Il loro punto di vista, che personalmente condivido in pieno, è sintomo di un malessere non ascoltato dai governanti, ed a cui bisognerebbe porre rimedio al più presto. Eccoti dunque cosa mi hanno detto Ilaria di Quarta Bozza ed Alberto di Maestro Alberto.

La scuola di oggi prepara gli uomini di domani?

QBSperiamo di sì. Non ho un’opinione precisa sulla scuola italiana di oggi, e non voglio averla perché, non vivendoci dentro, potrei pensare solo banalità. Mi limito a dire che tutto ciò che ho imparato a scuola mi è tornato utile prima o poi: dalla biologia al greco antico. Il greco serve, il latino serve, l’analisi logica serve moltissimo. Serve anche l’informatica, per carità, ma su basi solide di matematica, fisica e chimica.

Quel che invece mi pare evidente è che l’università di oggi non prepara i ricercatori di domani: il panorama è desolante, e la sostanziale scomparsa delle tesi di laurea mi deprime oltremodo. Per me quelle quattrocento pagine, un anno e mezzo di lavoro, sono state fondamentali: mi hanno insegnato a ragionare, a valutare l’attendibilità delle fonti, a fare ipotesi, verificarle e falsificarle. Un’educazione al rigore del pensiero, che in questi tempi di irrazionalismo, disimpegno e frottole sarebbe una mano santa.

MAPenso di sì, almeno la scuola che conosco io. Semplicemente perché a scuola s’impara a rispettare le regole (o almeno si dovrebbe). Ma la battaglia è dura.

I messaggi che arrivano ai ragazzi di oggi fuori dall’ambiente scolastico non si dirigono in tal senso. Rispettare le regole a molti non conviene e bisogna imparare ad essere furbi. Talvolta proprio dalle famiglie arrivano certi input, per non parlare dei personaggi che frequentano i media…

La scuola è sempre più lontana dalla società in cui si vive tutti i giorni, di certo si dovrebbe tentare un avvicinamento. Questo spetta principalmente a chi fa le leggi, non soltanto agli insegnanti, novelli Don Chisciotte del nostro tempo. Comunque è un vecchio discorso. Io, personalmente, credo di aver imparato ad essere un uomo soprattutto sbattendo nelle difficoltà che ho incontrato tutti i giorni nella vita, come tutti del resto. Forse si dovrebbe iniziare dall’alto, dalle scuole superiori o dall’università, preparando i giovani ad affrontare il mondo del lavoro concretamente.Tuttavia la scuola non può vincere questa scommessa da sola se non concorrono tutte le agenzie educative esterne, a partire dalla famiglia.

Se ti dico “mellifluo”, che scena ti viene in mente?

QBMolte, nessuna delle quali è opportuno menzionare in questa sede. Diciamo, in generale, che l’affettazione e le smancerie insincere mi sembrano particolarmente spassose quando si manifestano online. Banalmente, online le reazioni emotive sembrano acuite, intensificate: sui social network si perdono facilmente i freni inibitori (e il buon senso). A me, che emotiva non sono per nulla, tutto ciò pare molto buffo, ed è fonte di piacevole intrattenimento nelle lunghe giornate di lavoro.

MAUn signore di una certa età in giacca e cravatta, con il riporto e i capelli unti che ti stringe la mano sudaticcia con distacco sfiorando la tua. Oppure una collega falsamente adulatrice che non vede l’ora di parlare male di te appena le volti le spalle…

Non mi piacciono le persone false, tanto meno quelle troppo sdolcinate. Ho sempre avuto a che fare con amici schietti, stabilendo rapporti sinceri, a volte anche duri, di scontro, ma autentici. Per questo ho allontanato tanta gente (e molti hanno allontanato me). C’era un tempo in cui me ne dispiacevo, ora non più. Mi piacciono le strette di mano schiette e chi ti dice le cose in faccia francamente senza troppi giri di parole.

Esiste un aspetto terapeutico dello scrivere?

QBEsiste per molti, credo, altrimenti non si spiegherebbero tutti quei romanzi che la gente tiene nel cassetto. (Anzi, altro che cassetto: li mandano agli editori, che poi li fanno leggere a me.) Non a caso, il novanta per cento di questi romanzi sono autobiografici, ovvero il/la protagonista è quello che nel gergo delle fanfiction si chiama una “Mary Sue”: una versione idealizzata e ideale dell’autore. Immagino che questo possa avere una funzione catartica.

Quanto a me: no, niente effetti terapeutici. Non scrivo di questioni personali, e non leggo blog personali altrui: mi interessano più le idee astratte che le storie. Sul blog, ma anche sui social network, scrivo solo quando credo di poter tornare utile a qualcuno. Non sento di dover esprimere per forza un’opinione su tutto, e cerco piuttosto di praticare un’ecologia del pensiero: rifletti prima di scrivere, e leggi mille pagine per ogni pagina che scrivi. È una regola che mi sono imposta, però non mi costa fatica: semplicemente, per la maggior parte del tempo non ho niente da dirvi. Il mondo è già pieno di cicaleccio inutile, post inutili, libri inutili.

MASicuramente sì. Non tanto se lo si fa tutti i giorni per necessità o per professione. C’è chi scrive perché sta male, perché è innamorato o perché soffre. Non conosco poeti o grandi scrittori che non fossero stati travagliati interiormente.

In questo senso la scrittura è terapeutica, liberatoria, permette di stabilire un rapporto con la propria interiorità e, forse, di conoscersi meglio. Attualmente invece la scrittura è brutalizzata, compressa, ridotta. Soprattutto quella che usiamo tramite una tastiera purtroppo. Non c’è cosa più difficile che insegnare a scrivere. C’è chi impara e chi no. Saper scrivere è un dono, è un’abilità appagante che viene da dentro di noi.

Come nasce la tua esperienza di blogger?

QBSono su internet dalla metà degli anni Novanta, i blog li ho visti nascere: e ho osservato il fenomeno con un certo sgomento, sempre per quella strisciante sensazione di non avere niente da dire a nessuno, mentre intorno a me tutti sembravano diventati opinionisti e tuttologi. Per anni mi sono limitata a leggerli, i blog: poi verso il 2003 ho provato ad aprirne uno, in inglese perché all’epoca non frequentavo il web italiano ma solo alcuni forum e newsgroup britannici.

Quel primo blog è durato un mese, ma in seguito ne ho aperti vari altri, da Splinder fino a una serie di WordPress self-hosted, l’ultimo dei quali è quartabozza.com, tuttora in attività con il suo post al mese o poco più. Nel frattempo ho riprovato a tenere un blog in inglese, ma (a) non me lo commentava nessuno perché non frequento più quelle community anglofone, e (b) aggiornare regolarmente due blog va oltre le mie possibilità. Collaboro già con vari siti, per lavoro scrivo, e l’ultima cosa che ho voglia di fare alla sera è sfornare altre venti righe di testo. Scrivere non mi rilassa, mi spossa.

MAÈ una domanda che mi hanno rivolto tante volte e a cui non ho più troppa voglia di rispondere.Desideravo aprire un sito di informazione scolastica diverso dai soliti, convenzionali, statici siti scolastici. Ho deciso di buttarmi su un blog. Nasce così Maestro Alberto. Poi ho pensato di aprirne un altro che mi permettesse di parlare anche di altri interessi personali e così, un po’ per gioco, ho dato vita a maestroalberto. Non c’è nulla di calcolato, tutto è nato spontaneamente senza sapere dove questo viaggio mi avrebbe condotto.

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